C’era una volta una valle paludosa. La natura regnava sovrana: incolta, impervia, lussureggiante. Bellissima nella sua incontaminata inaccessibilità. Irascibili fiumi ringhiavano come cani rabbiosi e le zanzare flagellavano a morte i gatti selvatici. Arrivò l’uomo.
Si spinse sulle alture, colpendo gli animali che si avventuravano fuori dai fitti boschi. Nella buona stagione imparò a coltivare il frumento, le mele. Per centinaia di anni l’uomo si è sentito parte del mutar delle stagioni, delle vibrazioni della terra, dei palpiti di piante ed animali. Continuò a bonificare, a costruire argini, a vivere la natura come sua alleata. Si sentiva parte del tutto.
Furono i romani a portare nuove tecnologie e un nuovo linguaggio. Secoli dopo baiuvari, normanni, slavi transitarono attraverso la catena montuosa più giovane d’Europa, le Alpi. Quella che era la nuova lingua, il ladino, venne divisa come chi la parlava. Pregava e lavorava e bestemmiò l’uomo maledicendo la peronospora e la filossera; la più catastrofica calamità che l’agricoltura europea avesse mai conosciuto.
Avremmo voluto non ci fosse stato di peggio, di più minaccioso; invece nemmeno la dolomitica Bellezza riuscì a far tacere i cannoni. L’uomo ha voluto quelle atrocità: lui l’ha fatta, quella Grande guerra. Il genere più pericoloso che abita il pianeta ha forato le montagne, distrutto case, vite e speranze. Ha portato la fame. La curiosità degli esploratori prima, e degli alpinisti poi, ha fatto conoscere le Dolomiti.
Le prime slittovie trainarono gli intrepidi sciatori, le prime case offrirono albergo. I tornanti dei passi accolsero i primi mezzi motorizzati e hanno fatto divertire appassionati ciclisti, tifosi di Coppi e Bartali.
Sembrano tempi remotissimi, ma di mezzo c’è solo una generazione, o poco più. La strada delle Dolomiti ha compiuto cent’anni. Lo spettro della povertà è vinto, si può passare ad altro: a capire finalmente che è l’ora di preservare; a cogliere l’importanza della nostra lingua; a sentire l’ambiente come l’essenza stessa della nostra identità. A costruire il paesaggio. Lavoro d’unione tra l’uomo e il territorio. Per un presente e un futuro fatto di turismo intelligente. Posso seguire le tracce di lepre e altre che non conosco. Posso perdermi sopra i pensieri e fuori dai sentieri, posso sedermi in mezzo alle chiazze di neve. Mi sembra che sia stato un gallo cedrone a cantare. Vivo tutt’attorno come un giardino, non più come quell’incolta terra che con amore o con forza, con rispetto o con violenza, la mano umana doveva trasformare.
Oggi arriverò tardi al lavoro, non importa. Ho il desiderio di tempo. Il nostro tempo e i nostri desideri valgono come le Dolomiti per la coppia d’aquila che nidifica a metà Sassongher. Ho voglia di incantarmi davanti al contadino che falcia l’erba; di chinarmi fino a terra per bere l’acqua dalle sue viscere. Ho voglia di passeggiare scalzo sulla rugiada mattutina cogliendo la sua energia; le parole sembrano sgorgare da ogni gesto, passo dopo passo: mi sento inebriato. D’inverno sembra ferma la natura nel bianco silenzio e nelle immense distese di possibilità di questa vita.
La natura sveglia l’uomo, il mondo è in pace. Anche la specie più pericolosa del pianeta ora sembra in sintonia con essa; in un posto che cerca e conosce la verità. Basta saperla guardare, coglierne i segnali antichi e le nuove promesse.
Sì, oggi è un buon giorno e io mi sento un pezzo di essa. D’inverno finito. E dopo l’inverno è sempre una vita diversa, perché è una vita che rinasce. Non ce ne accorgiamo, ma di questa rinascita ce n’è bisogno. In questa rinascita, come nel bisogno.
michil costa, martedì 20 aprile 2010