ELOGIO DEL SILENZIO. In pieno Tour, nel giorno in cui la Grande Boucle finisce fuori strada (Flecha per terra e Hoogerland sul filo spinato) a causa della follia dell’autista di France Television, in Italia si è corsa la Maratona delle Dolomiti. La 25° edizione della più importante manifestazione cicloamatoriale ha allineato al via anche quest’anno la bellezza di 9.454 partecipanti, più o meno famosi: molti moltissimi i famosi. Michil Costa, il grande papà di una corsa che in questi anni ha fatto storia e tendenza, sogna montagne senza auto e a misura d’uomo.

«Il vero lusso? La lentezza», dice. Il vero problema è che in questa corsa tutti vogliano andare maledettamente veloce: pure troppo. La Maratona della Dolomiti dovrebbe essere solo e soprattutto promozione del territorio di una delle zone d’Italia più incantevoli ed esclusive. Paesaggi mozzafiato, cibi da acquolina in bocca. Vini che meritano di  essere degustati almeno una volta: meglio se di più. Dovrebbe essere il festival delle biciclette, dell’amicizia, dell’ambiente e sicuramente lo è, ma quello che traspare dalle sei ore di diretta tivù – e dico sei – è il festival dell’agonismo senza senso e dei senza nome. Michil Costa racconta e promuove un qualcosa che nella sostanza non c’è o non emerge completamente. Parla di elogio della lentezza, ma qui tutti corrono, guardano il cronometro, si marcano, si smarcano manco fossero al Tour e non sulle Dolomiti. Distacchi, classifiche, tempi e prima della corsa anche un bel controllo ematico. Ci piacerebbe una maratona lenta, lentissima, fatta da diecimila persone che vanno su e giù per le Dolomiti con il solo gusto di esserci, di incontrarsi, con la telecronaca che parla di vette e luoghi incantati. Senza tempi e distacchi. Senza  esami ematici prima del via. Senza nomi e cognomi. Solo un lungo, prolungato e infinito silenzio.

BEN ALTRE CURE. Il Tour è il Tour: lo confermiamo. Troppo bello, troppo grande, troppo tutto, anche negli eccessi: vedi moto che disarciona Nicki Sorensen o vettura che fa fuori in un colpo solo Flecha e Hoogerland. Ma in materia di sicurezza, dove il Tour ha lasciato a desiderare, vorrei dare a cesare quel che è di cesare: quindi una nota di merito al servizio sanitario del Giro d’Italia. Un plauso al responsabile del “soccorso rosa” – il professor Giovanni Tredici – e a tutto il suo staff. Vi ricordate la caduta rovinosa di Alexander Vinokourov? L’assistente sanitaria del Tour che osserva sul ciglio della strada, i due ragazzi dell’Astana che faticosamente cercano di riportare su dal dirupo il malcapitato campione kazako (per lui frattura del femore e fine della carriera). Al Giro una cosa del genere non sarebbe mai potuta accadere: nessuno avrebbe mosso un corridore in quelle condizioni. Prima il medico si sarebbe accertato del reale stato di salute del malcapitato atleta, poi si sarebbe deciso il da farsi. Non per criticare, solo per dire che al Giro ci sono altre attenzioni. Per la serie: il Tour è più grande, più bello e più tutto. Ma il Giro può godere di ben altre “cure”.

LARGO  AI DILETTANTI. Il problema delle formazioni Continental è sotto gli occhi di tutti. Formazioni senza arte né parte, che non pagano i corridori, che prendono da questi soldi per poter allestire squadre senza il benché minimo straccio di un passaporto biologico e come se non bastasse senza nemmeno l’obbligo di compilare periodicamente il modulo di reperibilità  (l’Adams). Premesso che se io fossi team manager di una squadra di World Tour non andrei a correre una sola gara con un team Continental al via e probabilmente lo stesso farei se fossi a capo di una formazione Professional, spero che il nostro presidente Renato Di Rocco, che sull’argomento è molto sensibile, faccia in modo che dal prossimo anno queste formazioni  girino alla larga dal nostro Paese. O queste decidono di fare un salto di qualità e da Continental passano Professional, nel rispetto di tutte le garanzie sportive, etiche ed economiche, oppure facciano il loro ciclismo fuori dai nostri confini. E’ chiaro che anche gli organizzatori devono piantarla di invitare squadre che anziché fare promozione al nostro sport lo dequalificano in maniera profonda e definitiva. Se proprio vogliono, che chiamino qualche team nazionale o dilettantistico. D’altra parte lo sappiamo che l’Italia è il Paese dell’incontrario: i team dilettantistici sono i più professionali al mondo e parte di quelli professionistici i più dilettantistici in assoluto. Quindi, largo agli under 23: i dilettanti veri.

Pier Augusto Stagi
editoriale da tuttoBICI di Agosto