E anche la montagna andava “addomesticata”, senza eccezioni di sorta. A cavallo tra il 19esimo ed il 20esimo secolo, mentre lo Stato sconfiggeva il brigantaggio e 13 milioni di nostri connazionali emigravano per cercare un lavoro, metà dei boschi italiani passarono in mano ai privati.
Fino ad un paio di secoli fa, le montagne destavano in noi emozioni molto differenti rispetto a quelle che ci provocano oggi. Ai nostri antenati incutevano rispetto e devozione. Di più: timore. In seguito furono scoperte dagli avventurieri, studiate dai geologi, violate dai primi turisti. Ma in quell’epoca solo una ristretta cerchia di persone aveva la possibilità – e la forza – per salire sulle nostre montagne, per lo più inaccessibili.
La fase che seguì fu quella della cementificazione dei monti: ovunque sorsero dighe, bacini idrici e condotte. Nel 1905 l’Italia era il terzo Paese al mondo per la produzione di energia idroelettrica. Un bel primato, pagato dall’ambiente con enormi gittate di calcestruzzo, tonnellate di acciaio, fiumi deviati e – nel Meridione – addirittura ridisegnati in base alle esigenze dei progettisti. Interventi che cambiarono il volto alle montagne del Belpaese. Prendeva il via l’industrializzazione, che comportava anche un nuovo rapporto tra l’essere umano e l’ambiente che lo circondava. E anche la montagna andava “addomesticata”, senza eccezioni di sorta.
Tutto ciò però, non era sufficiente, bisognava anche strapparle a chi, fino al giorno prima, le aveva gestite come un bene comune, con la formula dei commons, in Alto Adige vicinie, nell’Ampezzano Regole, sostituite dalla proprietà privata. In un paio di decenni, a cavallo tra il 19esimo ed il 20esimo secolo, mentre lo Stato sconfiggeva il brigantaggio e 13 milioni di nostri connazionali emigravano per cercare un lavoro, metà dei boschi italiani passarono in mano ai privati.
Il fascismo fece di peggio, sfruttando l’immagine delle montagne per la sua propaganda: accanto alle pianure bonificate, c’erano i monti selvaggi “domati” dai grandi impianti idroelettrici comandati dal “superuomo” mussoliniano, esaltati da un CAI piegato dal Duce al ruolo di cassa di risonanza. Per non parlare dei milioni di tonnellate di dinamite che vennero fatti esplodere sulle nostre montagne durante la Grande Guerra.
E poi è toccato a noi, non dovevamo sfruttarla ai nostri fini propagandistici o bellici. Dovevamo solo ospitarvi i turisti, promettendo loro qualcosa di unico e grande, la natura selvaggia e incontaminata, un eremo che li proteggesse. Abbiamo evitato lo spopolamento, ma abbiamo anche trasformato tanti luoghi in fast-food pornoalpini. Per scopi turistici abbiamo rimodellato valli e monti, intasato strade, venduto case. In alta stagione vi regnano caos, rumore, smog; certo, i letti devono essere riempiti, bisogna investire, darsi da fare.
Cosa è successo? È cambiata la nostra percezione della bellezza, ed è in base a quella che abbiamo plasmato quello che ci circonda. Fino alla trasformazione dei luoghi in merci. Come abbiamo visto, l’approccio dell’uomo nei confronti della montagna è sempre stato utilitaristico, speculativo. Oggi, però, temo che il livello al quale abbiamo spinto lo sfruttamento di quei luoghi così delicati sia eccessivo, anche in relazione alla qualità della vita di chi in quei luoghi risiede. Anch’io, nella mia qualità di imprenditore turistico, sono un ingranaggio di quella macchina infernale, lo so. E, proprio per questo, credo che riflessioni su quello che ci fa bene e ciò che viceversa ci nuoce siano un dovere morale, anche per i rappresentanti della mia categoria. Anche perché, come diceva Alda Merini, la mia poetessa preferita, “siamo diventati uomini di spettacolo, animali da palcoscenico”.
È davvero così? Le montagne sono diventate il palcoscenico delle nostre indecenti rappresentazioni? L’agire dell’uomo ha compromesso la loro bellezza? È colpa di questa crisi –la crisi economica è sempre l’ultima delle crisi, prima arriva quella culturale e spirituale. E se quella economica ci angoscia, quella spirituale ci uccide- che ci spinge a prendere i soldi e scappare, perché altrimenti tutto finisce a rotoli? Forse la risposta sta, ancora una volta, proprio nella natura: dopo aver reinventato in paesaggio, adesso dobbiamo a reinventare noi stessi.
Michil Costa