La differenza tra l’animale e l’uomo è che l’animale sa di cosa ha bisogno. A noi esseri umani spesso invece manca la consapevolezza di quel che è necessario per l’uomo. La cultura è necessaria. I beni primari rimangono cibo e acqua e, forse, un tetto sopra la testa, ma è la cultura che ci fa capire che non siamo solo una disgrazia della galassia. La cultura esige cura e attenzione, come un giardino. Se poi riusciamo a unire armonicamente architettura e giardino ci renderemo conto che il tempo non è lineare, ma che contiene simultaneamente passato, presente e futuro. Investire in un “giardino” significa investire in una cultura del tempo, il nostro, che spazia fra passato, presente e futuro.

Immagino un freespace, uno spazio di vita che trasmette la sensazione di comunità e di benessere: architetture, alberi, un giardino che si contamina e che contamina chi cerca pace e ispirazione. In una società caotica e veloce abbiamo l’obbligo di evitare che gli spazi diventino puro consumo banalizzando tutto a un evento, tanto di moda oggigiorno. Giardino come cultura, quindi: cultura che diventa cibo per l’anima. E il cibo per l’anima non è sempre compatibile con un’attrazione turistica. Ognuno di noi ha il turista che si merita. E, già che ci siamo: vogliamo un turismo di qualità? Dobbiamo allora offrire un paesaggio di qualità. La qualità del paesaggio è il perno attorno al quale far ruotare le politiche del turismo. Argomento complesso, quello del turismo, in un momento nel quale assistiamo alla caduta di tutti gli argini: passi, strade, hotel, colate di cemento, pesticidi, management del lupo. Questo è il paesaggio, anche desolato, che ci circonda. Una moto che sale al passo Sella causando inquinamento acustico, in quel momento fa parte del paesaggio. Trasformazioni continue quindi. Così come i ragionamenti degli albergatori in cubatura creano rovina, una buona architettura può aggiungere qualità agli ambienti in cui viviamo.

Uno spazio aperto, un giardino diventa una piazza, un’agorà che unisce le persone. È quello che conta veramente oggi: fare comunità. Nei prossimi trent’anni verremo sempre più governati – è il caso di dirlo- da algoritmi e intelligenze artificiali. Ma noi possiamo contrastare il progresso-pubblicità con comprensione, apertura mentale, socializzazione fisica, non virtuale. E quindi dobbiamo intervenire con un nuovo ingrediente, il giardino-architettura. Hannah Arendt diceva, già molti decenni fa, che la società di massa non vuole cultura ma svago. Forse è ora di invertire la rotta: abbiamo una tradizione da mantenere e una società da servire. Ai visitatori vorremmo ricordare la bellezza e la qualità eroica del posto, che gli spazi belli e importanti non sono solo contenitori di svago e consumo. I beni pubblici possono essere generati solo a seguito di un’azione collettiva, non è solo una progettazione a colpi di rendering. Dobbiamo continuare a coltivare una tradizione che ci fa sentire partecipi del luogo. E per farlo dobbiamo essere radicali. Cioè piantare radici, come i begli alberi che sorgeranno qui. Nulla ci vieta di essere belli e la bellezza, malgrado le calamità che l’affliggono, non smette mai di apparire: diamole una mano a germogliare una volta di più.

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