È ancora notte fonda, dobbiamo andare a Bolzano a prendere il treno delle sette, direzione Roma. Avrei voglia di buona musica; per me è importante iniziare bene il giorno per poi lasciarmi pervadere da un sentimento positivo durante l’arco di tutta la giornata. Una volta qualcuno mi disse di fare bene la prima azione, come farsi il letto. È difficile sbagliare, ti porti dietro un’azione andata a buon fine e se anche la giornata dovesse andare male, almeno puoi tornare a casa che ti ritrovi il letto fatto. Quindi, pur non aspettandomi un malinconico Tom Waits o una dolce Mina, confido in un lieto risveglio musicale. La radio del mio compagno di viaggio è sintonizzata su una stazione in cui, e non sono ancora le sei del mattino, parlano, anzi blaterano in due o tre contemporaneamente. L’insopportabile chiacchiericcio radiofonico continuo al quale il mio collega non fa nemmeno caso, lo sento in quest’auto e lo sento nei ristoranti, nei bar, nei negozi; a questo punto vorrei gridare anch’io: mi fanno male le orecchie! Vorrei urlare perché sembra che solo alzando la voce e sprecando fiumi di parole a destra e manca si venga ascoltati. O si ha l’impressione di essere ascoltati.
“Parole parole parole” canta Mina. Quante parole buttate lì, senza senso. Quante parole usate per riempire gli spazi. Parole che viaggiano troppo veloci su Twitter e raccontano solo di come le persone si mostrano al mondo, sempre in bella vista. E mi viene in mente Bob Dylan che accetta di essere immortalato da Jerry Schatzberg, a condizione di non mettersi mai in posa. A lui interessa comunicare attraverso parole in musica. Altri tempi, altri modi. Adesso sono di moda le violenze verbali usate per inveire, ferire, denigrare: un diluvio di parole gettate lì con “daimonia hyperbolé”, con “straordinaria esagerazione” tra ismi contemporanei vari che si intrufolano dappertutto come il verme in un frutto. Parole come rutti della mente tra montagne di furbizia e troppe “buzzwords”; parole abusate che hanno la velleità di essere sintetiche o immediatamente comprensibili, dette perché le dicono tutti, senza riguardo per l’etimologia e il senso. E poi ci sono i razzisti, maestri nello sciorinare brutalità verbali e che continuano a fare proseliti dando vita a frustrazioni che escono violente in incontri di calcio, sulle strade, contaminando perfino il parlamento. Ministri e onorevoli che dovrebbero avere la capacità di calibrare le parole, usarle come pepite. “Che altro è la politica se non lo sforzo di portare e mantenere l’unità in istituzioni che tendono allo squilibro o addirittura alla sopraffazione e allo scontro?”, scrive il saggio Platone. Le parole pesano, possono essere macigni, non possono essere usate a sproposito; ma chi fa discorsi complessi e articolati è considerato noioso. Chi parla piano e con la voce soffusa viene additato come un tipo scialbo, senza carattere. Essere dolci e parsimoniosi con le parole è stucchevole agli occhi di chi urla, occupato e interessato a colpire e offendere chi la pensa diversamente per poi nascondere la coda tra le gambe firmandosi in rete con uno pseudonimo. Mi rendo conto che in un’epoca in cui tutto deve essere instagrammability è complicato riflettere su Kant e Hegel. Le parole valgono se dette da social stars e influencer e vale chi ha un’importante quantità di likes su Facebook. Tra follower, engagement e inglesismi vari -come quelli di questa newsletter- assistiamo a una dinamica insensata di parole che contribuiscono a un algoritmo che tramuta le relazioni personali in commercio. Non si vale secondo la qualità del pensiero, anzi, si è sospettati di utopismo chimerico e di vuoto idealismo se si fa un discorso ragionato in direzione giustizia e amore.
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