Così come preferisco Nick
Drake a Michael Jackson, che di dischi ne ha venduti qualche milione in più,
il mio Nokia fine novecento a un contemporaneo Huawei con integrato
massaggiatore e diavolerie varie (dal primo gennaio di quest’anno ho deciso di
non guardare più gli schermi degli smartphone), e i canederli allo speck del
contadino ai McDonald’s imbottiti di robe strane, così preferisco il
Flaccianello della conca d’oro di Panzano al Prosecco di Conegliano.
Ma che banalità penserà qualcuno, qualcun altro dirà che ci vuole poco, un altro ancora risponderà: è buono ciò che piace. Appunto; il Prosecco non rientra proprio tra i miei preferiti. Non mi piacciono i dopati, e tantomeno i vini dopati. Non mi piace l’idea che si producano 466 milioni di bottiglie in una zona pervasa da monocoltura industriale e che della biodiversità se ne fa un baffo. Troppa produzione divora il suolo, e dell’estetica fatta di siepi e alberi, di un buon governo del territorio non se ne interessa proprio. Si aggiungano i danni di fitofarmaci e sostanze chimiche tossiche che si utilizzano in una terra ormai sterile per aumentarne la produzione e abbiamo fatto bingo. La produzione del Prosecco vale 2,3 miliardi di euro (Ansa, dic. 2018) su 7549 ettari (rispetto a 7195 del 2015), impegna oltre tremila viticoltori. Certo, nel settore ci sono produttori eccellenti che fanno vini naturali degni di nota, puri e piacevoli. La storia però si ripete: a troppi operatori del settore non importa granché di fissare dei limiti. Nihil sub sole novi, nulla di nuovo sotto il sole. E nulla di nuovo quando i colibatteri, nei casi più gravi, ammazzano la gente. Il problema nasce quando la chimica ammazza la Terra.
Da qualche settimana le colline del Prosecco di Conegliano e Valdobbiadene sono patrimonio mondiale dell’Umanità “grazie alla loro bellezza paesaggistica, culturale, agricola unica e al gran lavoro promozionale di squadra del sistema-Paese”. Una nomina a dir poco sorprendente. “Luoghi unici al mondo, con il contributo determinante dell’uomo”, pubblicizzano. Ah certo, i danni maggiori non li fanno mica i caprioli o i gipeti. Che siano belle le colline, uniche, come uniche sono le Dolomiti e come unico è il cirmolo qui fuori, su questo non vi è dubbio. Eppure a me piace pensare fino in fondo: sono contrario a qualsiasi monocoltura, siano le mele della val Venosta o quella turistica, o le batterie di maiali ungheresi usati per la produzione di speck sudtirolese. Da questo punto di vista sappiamo bene che a Valdobbiadene i problemi non mancano: dai pesticidi che avvelenano terra e persone, all’erosione del suolo. Uno dei punti principali per una tutela Unesco dice: ”Essere esempi eccezionali che rappresentano significativi processi ecologici e biologici in corso nell’evoluzione e nello sviluppo di ecosistemi terrestri, d’acqua dolce, costieri e marini e comunità di piante e animali.” Forse l’Unesco sta un po’ travisando la nobile idea iniziale?
Ancora una volta la vittoria è
dei “Signori dei vigneti”, quell’ampio fronte politico ed economico
che ha voluto a tutti i costi questo riconoscimento. Una battaglia vinta per
qualcuno, che però rischia di diventare una sconfitta per il territorio e le
popolazioni che lo abitano. Innalzare una monocoltura industriale a Patrimonio
dell’Umanità a danno dei piccoli produttori che lavorano con serietà, fatica,
dedizione: è questo il nuovo orientamento dell’ente Unesco, ormai in balia
delle lobby di potere? Povera umanità.
Quest’anno la denominazione
DOC, nata con propositi di tutela e valorizzazione del territorio, compie
cinquant’anni, mi sembra non ci sia proprio nulla da festeggiare. Gli unici a
brindare saranno i Signori dei vigneti, con un bicchiere di Umanità Proseccata
ovviamente.
Alto Adige, 27/07/2019