C’erano i contadini che volevano prendere in mano il fucile per abbattere il lupo. E c’era l’associazione albergatori che spingeva per ammorbidire la legge urbanistica per costruire più letti.
C’erano le mele avvelenate in val Venosta ma che non si poteva dire perché sennò ti portavano in tribunale. E poi i collaboratori che era difficile trovare, e chi i petardi in barba a tutti i divieti a Capodanno li sparava comunque.
Proviamo a fare un po’ d’ordine: dobbiamo relativizzare per non farci inghiottire da una falsa percezione del tempo e dell’insieme delle cose, per non perdere di vista le priorità del medio e del lungo periodo. Il nemico non è certo lo straniero che arriva sui barconi, anzi, sottovalutando la sterminata funzione culturale dell’altro, lo collochiamo al di fuori di tutte le funzioni, in una egoistica – e purtroppo non solo momentanea – monovisione delle cose.

Non facciamoci distrarre troppo dal virus, che non è un castigo divino, è un capitolo della nostra esistenza, è un periodo che stiamo vivendo e che sarà limitato, questa situazione non è tutta la vita, anche se per troppe persone la sofferenza è tanta. E, dobbiamo aggiungere, è una crisi che si sovrappone a quelle già esistenti, ecologiche, sociali, nazionali e globali. Quel che sembrava diviso in realtà è indivisibile. Concentriamoci su ciò che è possibile. È possibile produrre le mele senza usare diserbanti? Possiamo trovare una soluzione all’overtourism escursionism motorizzato? Possiamo offrire, nel nostro Bel Paese, un turismo fatto di cultura, servizio, cortesia e natura? Riusciamo a fidelizzare i collaboratori, a farli crescere, a dare loro opportunità di lavoro? Sì, possiamo. E questa è la buona occasione per ripensare a un turismo fatto come si deve. Anzi, è l’ultima. O la prendiamo sul serio o vi sarà la cacciata dal paradiso.

Alla base di tutto c’è sempre la conoscenza, l’istruzione, la formazione; il male del mondo è l’ignoranza. In ogni tragedia c’è una parte di contingenza e di assurdità. Stiamo vivendo un periodo disastrato ma in ogni caso tendiamo a sovrastimare le minacce che ci vengono incontro mentre sottovalutiamo le risorse con le quali siamo in grado di affrontarle.

Proviamo a non perdere la testa, a non sovra-reagire, non diamo ascolto a ex presidenti e attuali governatori che dicono che le minoranze devono sottostare alle maggioranze, contrastiamo i regnanti che continuano a bruciare le foreste o ad accettare che le donne siano sottomesse. È un periodo molto delicato, sovranisti e arroganti con la scusa della sopravvivenza economica incitano a usare il bastone. La soluzione? Procurarsi una carota. Essere flessibili, pensare a soluzioni alternative. L’essere umano è sopravvissuto ai mammut perché ha saputo adattarsi, non adeguarsi. L’adeguamento è sottomissione, mentre l’adattamento è la trasformazione nel lungo periodo. Dobbiamo ascoltare di più filosofi poeti e saggi economisti che sanno che un mondo così sbilanciato e ingiusto non funziona. Dobbiamo trovare rifugio nella ragione, nel processo di comprendere e risolvere le cose, le quali sono risolvibili da noi. Se non stiamo attenti, questa catastrofe potrebbe indurirci in uno stato di amarezza senza tregua lasciandoci la bocca amara e pungente come una bacca di ginepro che proprio questi giorni matura nelle Dolomiti. Il virus da solo non cambierà il mondo. Ieri tutti cattivi e domani tutti buoni? È un film di pura propaganda. La soluzione non è estirpare il male, ma comprendere la connessione delle cose. Non eccedere in un kitsch dell’ecologia, ma pensare – una volta tanto – di usare bene i tanti soldi che arriveranno per azioni ambientali, culturali, sociali, facendo piccole cose, con cura e precisione. Non serve lo stretto sopra il ponte di Messina o l’aeroporto a Bolzano, serve avere cura della via Francigena e delle magnifiche terme di Montecatini, serve intervenire dove c’è bisogno, serve immaginare un futuro accessibile alle nuove generazioni e non servono ulteriori speculazioni, raggiri, ruberie e furberie.

Forse potremmo imparare che invece di continuare a ragionare di recupero del tempo perso, potremmo agire pensando di dare prima di chiedere, di essere solidali invece che sfruttare; forse così, potremmo cambiare un pezzo di storia del mondo. Non è stimolante? E potremmo farlo anche con leggerezza. E la leggerezza è nella mortalità, nella comprensione del finito. Come dice Italo Calvino nelle sue lezioni americane: “Prendete la vita con leggerezza, che leggerezza non è superficialità, ma planare sulle cose dall’alto, non avere macigni sul cuore. La leggerezza che si associa con la precisione e la determinazione, non con la vaghezza e l’abbandono al caso.”

E allora facciamoci forza, noi, con la ciclopica missione di essere albergatori olistici oggi invece di fare gli albergatori individuali di ieri, accogliendo chi ci visita con gentilezza, accogliendo a braccia aperte e più di prima coloro che vorrebbero farsi chiamare cittadini. Usiamo leggerezza, la carota e… un buon panettone. Quelli di quest’anno sono più che ottimi, preparati dal mastro pasticcere Andrea Tortora per la nostra fondazione e dedicati a un progetto che abbiamo chiamato Panettone solidale. Il ricavato della vendita di tali squisitezze verrà devoluto a Lum Ha’, un’azienda agricola del Chichihuistan, zona fra le più povere in Messico, che si occupa di ripristinare l’agricoltura locale abbandonata, di riforestare le zone adiacenti, di rendere potabile l’acqua sorgiva inquinata, di aiutare la popolazione locale sostenendola con nuovi progetti di lavoro, educazione, coinvolgimento sociale. E se a Natale si dice che dobbiamo essere più buoni, e non si capisce perché solo in questo periodo dell’anno, ecco che l’occasione per esserlo è più che buona, ghiotta.

Bun Nadé con il Panettone solidale.

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