Entrai a far parte dell’azienda di famiglia, l’Hotel La Perla di Corvara, all’inizio degli anni ottanta. All’epoca nessuno si preoccupava del concetto di ospitalità, dei valori della nostra professione e nemmeno del marketing. Ci si limitava a lavorare come si era sempre fatto, tirandosi su le maniche, non lesinando l’impegno. La presenza in albergo dei miei genitori era costante: Anni ed Ernesto hanno l’ospitalità nel sangue. Nel percorso alla scoperta di questo mestiere, l’insegnamento più importante è stato il loro fulgido esempio. Per capire il significato del termine ospitalità, mi è bastato provare a emularli. Ma i tempi cambiano e le decadi scorrono e oggi ci troviamo di fronte a un bivio preciso, dobbiamo compiere una scelta di campo netta e distinta di fronte al moloch turismo che incombe su di noi.
Le pagine del mio primo libro FuTurismo vogliono essere da un lato considerazioni contro la monocultura turistica, espresse in base non solo alle mie esperienze personali, e dall’altro uno stimolo alla riflessione per capire quale passo fare. Del resto siamo gente di montagna, verso una cima che non può essere fatta solo di consumo esasperato del territorio, di scelte urbanistiche spregiudicate, di obiettivi legati al dio profitto.
Il turismo in Val Badia nacque all’inizio degli anni cinquanta. La popolazione viveva sostanzialmente di agricoltura e questa nuova attività rappresentava la grande opportunità per uno sviluppo economico che avrebbe potuto rendere più facile la vita di ogni giorno. Non c’erano esempi professionali ai quali rifarsi, né istituti alberghieri da frequentare, men che meno concetti – quali, appunto, l’ospitalità – verso cui orientare la propria attività. Si lavorava semplicemente di buona lena per accogliere gli ospiti nel miglior modo possibile. Si procedeva un po’ per tentativi, sulla base dei propri valori culturali personali: il rispetto, la gentilezza, l’umiltà. Dopo il boom economico, negli anni settanta fu l’avvento del turismo invernale a costituire la svolta, portando lo sviluppo economico e urbanistico in tutta la vallata. Il turismo diventa così gran parte della nostra vita.
Oggi, giunti all’apice di questo sviluppo, siamo di fronte a un paradosso: l’estrema ottimizzazione delle strutture ricettive ha portato all’industrializzazione del settore turistico, tanto che più di qualcuno, anche tra gli operatori, avverte la necessità di dare un senso più profondo a questo mestiere. Non vorrei essere frainteso: se condotta nella giusta maniera, come ogni altra cosa, l’industrializzazione del turismo porta ottimi risultati, soprattutto dal punto di vista economico. Ma la domanda che all’epoca della nascita del turismo nelle nostre vallate non avemmo il tempo di porci, rimane ancora senza una risposta: che senso vogliamo dare alla nostra ospitalità? Puntiamo su un’industria turistica volta a una continua massimizzazione del profitto? Oppure aspiriamo a un’accoglienza d’eccellenza che si fondi su valori più profondi quali la solidarietà, il bene comune, la sostenibilità ambientale, la Menschlichkeit, ovvero l’umanità? È facile capire quale potrà essere la risposta dei più.
Se invece approfondissimo la questione, capiremmo che dalla crisi dell’identità turistica nella quale ci siamo cacciati, potremo uscire solo se troveremo un’armonia tra le due aspirazioni e con essa la sintonia tra l’essere umano e l’ambiente che lo circonda. Solo se riusciremo a dare un senso alle prospettive future e ragioneremo in termini di bene comune, possiamo dare una concreta alternativa al dilagare del turismo pornoalpino che non solo sta logorando il magnifico territorio che madre natura ci ha donato, ma anche minando la nostra identità. Dobbiamo farlo, è nell’interesse di tutti.
(Testo tratto dal mio libro “FuTurismo – Un accorato appello contro la monocultura turistica”)