La natura come capitale, il profitto come unico scopo aziendale, la monocultura turistica al posto della cultura dell’ospitalità, la turistificazione di massa al posto della convivenza: questo, in sintesi, è ciò che intendo con turismo porno-alpino, una forma di mercificazione, una dimensione che si perpetua in un falso immaginario, priva di sensualità e di sentimento. Una rappresentazione oscena che si manifesta da anni attraverso pratiche che hanno nel cemento e nella speculazione i fattori più subdolamente mascolini e nella natura il soggetto sottomesso al più indecente meretricio. Non c’è afflato moralistico in questa definizione del modo di fare turismo che ormai si è diffuso ben oltre le montagne, piuttosto una semplice constatazione: la trivialità del turismo attuale sancisce la fine del turismo stesso. Per questo parlo di FuTurismo, nella convinzione che il turismo del futuro possa avere nuova vita e uscire dal postribolo in cui si è cacciato solo se entra in una dimensione altra che sappia rivalutare appieno il concetto di ospitalità.

A un certo punto della storia dello sviluppo turistico nelle Alpi, negli anni caratterizzati dal post boom turistico, siamo quindi nei primi anni ottanta, si è iniziato a perdere la consapevolezza legata all’ospitalità che man mano è andata scivolando verso una messa in scena artificiale della cultura alpina. Un mito quasi fiabesco, quello di Heidi che vive tra i monti, una certa nostalgia di tempi forse mai esistiti, di una vita alpina fatta di baite di legno, di cuoricini, di dirndl, di strudel, di musichetta leggera, di stufe calde e di una spensieratezza al limite dell’ipocrisia più becera. Questa coulisse pseudo alpina si è insinuata nel paesaggio turistico montano, rendendolo a tratti disneyano, senza ritegno e senza rispetto per la vera cultura autoctona, la storia, le tradizioni, le quali sono state tramutate sempre di più in concetti di marketing, pur sempre di grande successo. Il messaggio rivolto alla massa era ed è tuttora: “Auf der Olm do gib’s koa Sünd” (lassù sulle Alpi non vi è peccato). Parlo di un turismo porno-alpino perché questo tipo di turismo è una pratica al limite del buon senso, sembra forte ed eroico, in qualche modo sovrumano, invece è sfigurato, insensato, volto a creare eccitazione e soddisfare piaceri feticci.

 

Il turismo porno-alpino ha banalizzato quella sacralità che la montagna ha avuto per secoli nella cultura autoctona, ha invaso confini mentali e territoriali, conquistando le vette, rendendole agibili alla massa, rendendole un semplice e banale prodotto di consumo. Nel supermercato dell’umanità la condizione transitoria del paesaggio viene fissata come paesaggio originario atemporale. Ogni generazione crea così il suo proprio passato, apparentemente senza tempo, e nel farlo distrugge il passato dei padri, per dirlo con le parole di Lucius Burckhardt. Ciò che contesto è quindi l’abuso, il modo distorto e falso di fare turismo attraverso lo scempio quotidiano che esercitiamo nei confronti della natura, senza capire che è nella natura che troviamo la nostra redenzione.

Contrappongo al concetto del turismo porno-alpino che violenta la natura, il concetto della cultura dell’ospitalità, il nucleo pulsante della mia concezione di FuTurismo. La grande differenza sta nel modo di porsi, nel modo di concepire l’ospitalità: il vero a fronte del falso, la sincerità a fronte della pura messa in scena, la persona a fronte dell’industria turistica, il rispetto a fronte dell’effimera euforia, l’autenticità a fronte della finzione. Nel porno-turismo domina il catalogare le persone alla stregua di un buon affare. Nella cultura dell’ospitalità alberga un’idea di natura non straziata e snaturata, bensì ispiratrice nella consapevolezza che il depauperamento ecologico coincida con l’impoverimento del nostro essere umani.

(Testo tratto dal mio libro “FuTurismo – Un accorato appello contro la monocultura turistica”)