Al diritto di migrare corrisponde il diritto a restare, perché partire e restare sono i due poli dell’umanità.
A volte vorrei fuggire. Dentro questa meravigliosa valle mi sento espatriato. O peggio ancora, s-patriato, senza patria. Sento la patria mancarmi sotto i piedi. Patria. In tedesco esiste la Heimat, concetto ancora più potente. Più che un luogo, la Heimat è una dimensione, una storia – o essere parte di una storia -, un’idea alta, una sensazione. Un sentirsi bene in comunione.
Ho radici sudtirolesi, ladine, con madre di lingua tedesca e papà ladino. Amo l’italiano. Mi sento confuso, non per la lingua: l’italiano è la mia terza lingua, quella delle mie letture, delle mie canzoni, dei pensieri e a volte anche dei sogni. L’italiano è la lingua del mio cuore, del mio amore. Una lingua oggi fin troppo bistrattata, imbastardita. Mi sento s-paesato dal pressapochismo, dai troppi posti-letto che potrebbero essere innalzati a purissima ospitalità, dalla Terra trattata male, dalla mancanza di produzione di valori a discapito di una continua e parossistica produzione di beni di consumo. E a proposito di consumo, è quello costante del suolo, con una transizione energetica prima ancora di quella ecologica, a farmi sentire male. Ecco ciò che deturpa la mia Heimat.
Ma dove inizia la Heimat? E dove finisce? Quali sono allora le mie radici? E se la Heimat è una sensazione, cosa contano le radici? La risposta è nelle radici in movimento: noi siamo in moto continuo, facciamo parte di un cambiamento incessante che cresce e fa crescere. Le valli ladine, decretate a patacca da affiggere sul petto in quanto patrimonio dell’Umanità, non saranno mai più delle valli armoniosamente contenute nei propri limiti; è una polis che si trasforma, che si muove, cresce, consuma, insaziabile e insoddisfatta con una crisi sociale alle porte e ambientale in pieno atto. Vero è che vivere nelle Dolomiti può rendere più difficile capire quel che succede nel resto del mondo, certo è che il peggio non muore mai, ma i termini di paragone non vanno fatti guardando verso il basso.
Non mi basta guardare chi in una comprensibilissima e da me invidiatissima capacità di vedere il bello in superficie o forse nella scarsa consapevolezza del privilegio nel quale vive, ha qui in loco la piena soddisfazione della sua Heimat. Chi interiorizza patisce.
Si può anche con-vivere, attaccati alla Heimat ladina ma fisicamente lontani, beandosi di ottime suggestioni dedicate all’arte, a questi monti, alla lingua madre. Pensare ai luoghi d’infanzia e vivere a New York, o a Taiwan -fortemente sconsigliato di questi tempi- ti fa amare ma al contempo soffrire per quello che fa parte di te, della tua Heimat. Perché la distanza e i diversi costumi amplificano anche la malinconia.
È dunque meno peggio vivere in terra straniera pensando a una parte di sé e riconoscere che anche la tua Heimat è causa inarrestabile di metamorfosi e nel tempo diventa irriconoscibile, spaesata, e a tratti brutta, perfino estranea, oppure continuare a vivere a strettissimo contatto con la Heimat che non ti soddisfa più? È l’avvenire eterno che dà la possibilità, ma direi anche l’obbligo di fare. La Heimat non è un mezzo per inseguire le nostre aspirazioni, le nostre velleità, le nostre ambizioni. La Heimat è storia, cultura, pensiero, sensazione. Siamo noi che abitando qui, in Ladinia, in Südtirol, in Italia, dobbiamo costruirla, o, se vogliamo, ri-costruirla, trasformandola. Dobbiamo metterci forza, energia, cura. Nel nostro operato, nei nostri buoni pensieri, anche nella nostra lingua. Non siamo, non ancora, barbari. Possiamo ancora capirci bene, parlare bene, pesando le parole, per non ridurre futili pensieri in subdole chiacchiere. Forse tutto parte proprio da qui, dalla civiltà del parlare, dall’arte del confronto, da una cultura del dialogo. Pacatamente, rispettando tutto e tutti. Se i confronti in tedesco con mia madre, le riflessioni con mio padre e i miei fratelli in ladino, le parole d’amore in italiano, se queste lingue nella nostra provincia, se un bell’italiano educato e curato nel Bel Paese avranno la meglio allora, forse, ripartendo da qui, la vita in questo Paese non è vita straniera. Dobbiamo capirci per fare cose belle nel Paese più bello del mondo. E abbiamo tutta la capacità di farlo. Io amo profondamente le valli dolomitiche, amo l’Italia: dobbiamo riuscire a ricostruire la nostra identità e ci riusciremo, perché la crescita non può che essere in direzione Bellezza, e l’esilio non sarà la soluzione. A tale proposito faccio mie le parole dell’antropologo Vito Teti che traggo dal suo bel saggio intitolato Restanza pubblicato da Einaudi: “Partire e restare sono i due poli dell’umanità. Al diritto di migrare corrisponde il diritto a restare, edificando un altro senso dei luoghi e di se stessi. Restanza significa sentirsi ancorati e insieme spaesati in un luogo da proteggere e nel contempo da rigenerare radicalmente”. Proprio così.