Da Marco Forni riceviamo e volentieri pubblichiamo:
Caro Prof. Woland,
ci vuole uno spiccato “senso” della vita per cimentarsi con questa eterna partita a scacchi. Mi permetto d’intervenire anch’io con alcune idee in divenire infilate tra le pieghe delle parole.
Sono d’accordo con te quando scrivi: “La morte è un fenomeno come tutti gli altri”.
La nascita di un gatto è un semplice fenomeno.
La morte del mio gatto, però, al quale ero molto affezionato, può affliggermi (o anche tradursi in un lutto).
Può darsi che un giorno potrà essere compreso e sconfitto.
Nell’Antico Testamento leggiamo: “Noi dobbiamo morire e siamo come acqua versata in terra, che non si può più raccogliere, e Dio non ridà la vita” (Samuele, 12, 14, 14).
Anche se poi nel Nuovo pare emendarsi: “L’ultimo nemico ad essere annientato sarà la morte” (Dalla prima lettera di Paolo ai Corinzi 15, 26).
Intanto noi dobbiamo fare i conti, nel corso della nostra vita, con la morte degli altri. Quando toccherà a noi potremo soltanto: morirla (nella speranza di non dover subire l’anticamera del dolore caricato dall’onere della sofferenza).
Questo (pre-)giudizio, insomma, cambia fisionomia quando ci riguarda da vicino. Se viene a mancare una persona cara, fatichiamo di più a confrontarci con postulati asettici. Veniamo coinvolti (aggrediti) emotivamente da questa assenza, avvertita come una privazione. Poi ci corre in soccorso la memoria per consentirci di rendere digeribile questo venire meno. La morte di un congiunto lascia dentro un vuoto che va colmato (forse anche giustificato in qualche modo). Frammenti di memoria iniziano a restituirsi a noi, quasi fungendo da sostituto del nitore reale venuto a mancare.
Da tempo immemore l’uomo sente il bisogno di colmare silenzi, paure e ha attinto a idee disparate per contornare la propria realtà. Idee non di rado propinate e gestite oculatamente da autorità superiori concrete e astratte.
Tutte le mattine prima di uscire di casa mi diletto a dare visibilità al principio che il tempo ignora il sistema di riferimento. Sul mio scrittoio ho una clessidra. Misura, davanti ai miei occhi, la scansione del tempo che scorre inarrestabile. Granelli di sabbia si staccano dalla massa unitaria in alto e confluiscono sul fondo per costituire un’altra massa compatta. Lì dentro il tempo pare non disperdersi, ma ricomporsi sempre.
L’affermazione: “Tutto nasce e tutto muore”, mi pare un’affermazione ingabbiata dentro di sé. Tutto muta nel volgere del tempo e non resta mai uguale a sé.
Mi capita d’incontrare (ex) compagni di scuola con i quali ho condiviso tanti momenti di divertimento spensierato. Abbiamo giocato a nascondino nell’erba alta nei prati. Nei boschi abbiamo costruito insieme capanne sugli alberi.
– Ti ricordi quante ne abbiamo passate insieme. Rammenti quella volta che…
– Ah sì, vagamente. Ora, però, devo andare. Mi ha fatto piacere vederti. Forse un altro giorno possiamo riprendere per i capelli i bei tempi andati?
– Non so! Non oggi però, scusami, si è fatto tardi. È ora di andare.
Loro, io, non siamo più quelli di allora. Siamo cambiati: dentro e fuori. Siamo diventati estranei.
Mi piace pensare che quando non ci sarò più, una parte di me continuerà a raccontarsi nell’animo dei miei figli (magari a loro insaputa). Come chi mi ha preceduto continua a riproporsi dentro di me. Dà un senso di ebbrezza, lambìta d’eternità.
Il nostro essere identitario è animato da quattro impulsi: corporale con le sue necessità, libidinale con i suoi desideri, emozionale con i suoi sentimenti e intellettuale con le sue idee. Trovare la giusta misura, e riuscire a calmierare queste energie, ci mette in gioco una vita intera. E non di rado uno di questi elementi tende a prendere il sopravvento, con tutto quello che ne consegue.
L’aforisma di Foucault “Noi non moriamo perché ci ammaliamo, ma ci ammaliamo perché fondamentalmente dobbiamo morire ” mi pare una sorta di sillogismo che giostra su sé stesso. Uno che è sano come un pesce, improvvisamente muore d’infarto e non fa in tempo ad ammalarsi: cosa ha combinato? È un irresponsabile perché non si è attenuto al precetto? No, semplicemente è morto perché è venuto al mondo.
È proprio vero come ebbe dire Einstein: “Es scheint hart, dem Herrgott in die Karten zu gucken”, ma continuare a rimescolare le nostre e rimetterci in discussione, come scrivi tu, ci rende umanamente perfettibili.
Tutto ciò mi porta ad accogliere anche, senza se e senza ma, il senso della vita di mia nonna. Lei mai si sarebbe sognata di chiedersi se è stato Dio a inventare l’uomo o, viceversa, l’uomo a inventarsi Dio per dare un “senso” alla propria vita.
Quell’adorabile vecchietta semplicemente lo sentiva dentro (parte) di sé e della sua vita familiare e sociale. Così riusciva a sopportare, a farsi una ragione dei lutti che aveva dovuto patire. La sua preghiera quotidiana era di comprensione e d’auspicio nell’aldilà.
Per ora è assodato che alla fine dei nostri giorni tutti siamo destinati a morire.
L’indifferenza della natura.
Lei non si accorge della nostra fugace e chiassosa parentesi terrena. Sottoscrivo le tue parole:
“Non piove perché la pioggia serve per fare crescer l’erba”.
La natura è indifferente?
Che sia solo matrigna o anche madre benigna, dipende anche da noi nell’avvertire lo scorrere dei granelli di sabbia tra le mani, per il tempo che ci è consentito e poi riuscire, serenamente, a passare la mano.
Saluti dal Sassolungo testimone immoto dello scorrere imperturbabile del tempo.
Marco Forni, lessicografo e traduttore